Protagonisti - tutti i libri per gli amanti del genere Protagonisti - Johan & Levi Editore | P. 2
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Protagonisti

Arthur Cravan - Una strategia dello scandalo
Dopo aver preso «tutti i treni e tutte le navi» Fabian Avenarius Lloyd si stabilisce a Parigi, smanioso di ottenere fortuna per mezzo della poesia. A ventidue anni, con un talento non esattamente proporzionale alla corporatura titanica, è pronto a usare ogni espediente pur di farsi un nome. Non il suo ma quello di Arthur Cravan, pseudonimo che si attribuisce nel 1910 insieme all’epiteto più o meno legittimo di “nipote di Oscar Wilde”. Nelle fulgide serate dell’avanguardia desta scalpore con numeri eccentrici e scabrosi, di giorno si allena alla boxe nell’atelier del pittore Kees van Dongen, mentre si appresta a introdurre il pugno anche nella lotta artistica. Duchamp e Picabia sono estasiati dalla sua irriverenza: dalle pagine di Maintenant, Cravan scaglia contro i salons frecce velenose che gli costeranno otto giorni al fresco e la stima del critico più rispettato, Félix Fénéon. Scoppia la guerra e Cravan, nazionalità svizzera, si eclissa. Lo ritroviamo a Barcellona, travestito da pugile professionista, dove sfida il fuoriclasse nero Jack Johnson. Le locandine lo proclamano campione europeo, titolo che si è guadagnato senza combattere. Il match – così breve da risolversi in un’esibizione statica del mastodontico rivale – gli frutta quanto basta per imbarcarsi su un transatlantico diretto a New York, mettendo così un oceano fra sé e l’Europa in guerra. Dopo aver errato per Stati Uniti e Canada «mascherato da soldato per non essere soldato», eccolo di nuovo a New York dove il salotto degli Arensberg è il ring dorato in cui ambientare nuovi scandali e alimentare la sua “funesta pluralità”: l’incontro con la spregiudicata poetessa Mina Loy gli sarà in questo senso fatale.Le grida di rivolta, le folgoranti intuizioni poetiche, la strategia dell’arte al servizio della vita, l’antimilitarismo collocano Cravan tra i pionieri dell’avventura dadaista. La sua esistenza, così folle da sembrare inventata, è qui ricostruita nel dettaglio – dalla nascita a Losanna nel 1887 fino alla misteriosa scomparsa nel Pacifico nel 1918 – grazie ai fitti carteggi della madre. Ne emerge una personalità scissa, irregolare, dirompente, oltremodo contraddittoria, che riassume in sé vizi e virtù di un’intera epoca.Prefazione di Edgardo Franzosini
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Arthur Cravan

Una strategia dello scandalo

Maria Lluïsa Borràs

pagine: 222 pagine

Dopo aver preso «tutti i treni e tutte le navi» Fabian Avenarius Lloyd si stabilisce a Parigi, smanioso di ottenere fortuna per mezzo della poesia. A ventidue anni, con un talento non esattamente proporzionale alla corporatura titanica, è pronto a usare ogni espediente pur di farsi un nome. Non il suo ma quello di Arthur Cravan, pseudonimo che s
L'affaire Capa - Processo a un'icona
È il 1937 e la Spagna è dilaniata dalla guerra civile. A luglio un servizio della rivista Life traccia il funesto bilancio delle vite falciate in un anno di scontri e riproduce una fotografia destinata a fare il giro del mondo diventando un’icona dell’eroismo repubblicano: il Miliziano colpito a morte di Robert Capa. Lo scatto mette sotto gli occhi di tutti la morte in diretta di un combattente raggiunto in pieno volto da un proiettile nemico. Ma è davvero così? All’apice di un conflitto tanto radicalizzato sul piano ideologico, lo sguardo dei corrispondenti di guerra è necessariamente di parte.Dagli anni settanta tra i commentatori di quest’immagine s’insinua un sospetto e cominciano a emergere molti dubbi sulla sua veridicità. Si arriva addirittura a sostenere che sia il risultato di una vera e propria messinscena. L’opera che ha dato origine al mito del fotoreporter di guerra con la Leica al collo mentre si getta nella mischia sarebbe allora un falso? Si scatena così un vero e proprio “affaire Capa”, un processo a puntate al fotogiornalismo che vede accusatori e difensori coinvolti in un’accesa disputa sul luogo della tragedia, sull’identità del miliziano ucciso e sulla sequenza degli scatti realizzati. Il baricentro di tutte le argomentazioni avanzate dalle parti in causa è sempre l’autenticità, sacro requisito del fotogiornalismo.Con l’abilità di un investigatore Vincent Lavoie ricompone un mosaico di testimonianze dirette, ricerche documentali e perizie criminalistiche, ma anche di incongruenze, negativi falsificati e depistaggi. Un’indagine sulla verità in fotografia incisiva e avvincente che ripercorre le tappe di una controversia senza precedenti e che, in tempi di fake news e di reiterata manipolazione delle immagini, si rivela di una folgorante attualità.
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L'affaire Capa

Processo a un'icona

Vincent Lavoie

pagine: 167 pagine

È il 1937 e la Spagna è dilaniata dalla guerra civile. A luglio un servizio della rivista Life traccia il funesto bilancio delle vite falciate in un anno di scontri e riproduce una fotografia destinata a fare il giro del mondo diventando un’icona dell’eroismo repubblicano: il Miliziano colpito a morte di Robert Capa. Lo scatto mette sotto gli
Alberto Giacometti - Biografia
«Sorride. E tutta la pelle grinzosa del suo viso si mette a ridere. In uno strano modo. Non solo gli occhi ridono, ma anche la fronte. Tutta la sua persona ha il colore grigio del suo atelier. Per simpatia, forse, ha preso il colore della polvere.» Con queste parole Jean Genet, modello prediletto, descrive Alberto Giacometti, scultore irriducibile, un carattere che gli anni travagliati e il lavoro ossessivo hanno scolpito sul suo volto. L'attività nello studio di rue Hippolyte-Maindron, del resto, è molto intensa: a varcarne la soglia si assiste all'incessante lavorio sulle figure, che Giacometti distrugge e ricostruisce senza requie, in un'estenuante ricerca della perfezione, un oscillare tormentoso fra un ideale a cui tendere e i tentativi abortiti, un andirivieni di dubbi e ripensamenti. Pochi secondi fa rideva, ora tocca una scultura abbozzata e, rapito dal contatto delle dita con la massa di argilla, non si cura più di chi ha di fronte. Nato nel 1901 a Borgonovo, Alberto trascorre la giovinezza nello spazio aspro e familiare della Svizzera, con il padre che lo inizia all'arte fin dalla più tenera età e segue passo passo la sua carriera offrendogli incoraggiamento e sostegno. Nel 1922 si trasferisce a Parigi, dove compie i primi passi sotto la guida di Antoine Bourdelle e Zadkine, affrancandosi però ben presto dai suoi mentori per avvicinarsi, seppure per una breve fase, al Surrealismo di Breton e al Cubismo. Lo spirito ribelle, che segna tutta la sua ricerca e il suo passaggio attraverso le avanguardie, lo porterà a intraprendere un cammino solitario, ai margini del mondo dell'arte, nonostante le assidue frequentazioni con gli intellettuali più celebri dell'epoca nei caffè del Quartiere latino e di Montparnasse. Sedotto dalle arti primitive, approderà a una rappresentazione più sintetica e allucinata, dando vita a una schiera di figure vacillanti e in perenne cammino, che lo consacreranno sulla scena internazionale. «Non lasciarmi influenzare, da niente» annota in uno dei suoi taccuini: Alberto Giacometti appartiene a un tempo senza tempo, ciò che caratterizza l'essenza più autentica dell'arte.
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Alberto Giacometti

Biografia

Catherine Grenier

pagine: 306 pagine

«Sorride. E tutta la pelle grinzosa del suo viso si mette a ridere. In uno strano modo. Non solo gli occhi ridono, ma anche la fronte. Tutta la sua persona ha il colore grigio del suo atelier. Per simpatia, forse, ha preso il colore della polvere.» Con queste parole Jean Genet, modello prediletto, descrive Alberto Giacometti, scultore irriducibil
Automitobiografia
Marcel e Suzanne Duchamp, Octavio Paz e Edoardo Sanguineti, Breton e Man Ray, de Chirico e la duchessa di Beaufort sono solo alcuni dei personaggi che compongono la fauna di questo racconto erudito e sagace, a tratti esplosivo, lontano da qualsiasi convenzione autobiografica. Procedendo a ritroso dal 1983, anno in cui viene pubblicata, al 1924, anno di nascita dell’autore, Automitobiografia si configura come un viaggio iperbolico che risale la corrente degli eventi. Un viaggio che ci immerge fin dalle prime pagine nella coeva cultura visiva e che sembra rispondere, attraverso il suo percorso, alle tendenze allora in atto dell’arte “colta” e del citazionismo. Esperienze ben note a Baj, già abile artefice, fin dagli anni sessanta, di rifacimenti ludici delle opere dei grandi maestri, come il ciclo Chez Picasso o composizioni come La cravatta di Jackson Pollock e la Vendetta della Gioconda. Una vocazione che anche nei lavori successivi lo porterà a redimere ‒ insieme a un repertorio di icone, temi e stilemi del passato ‒ uno sgargiante armamentario di brocantes, medaglie, passamanerie, lustrini, scampoli damascati, coccarde e ogni genere di paccottiglia che affolla il suo studio. Questo metodo, volto al costante recupero e all’accumulo, si traduce sul piano della narrazione in un grande assemblage di ricordi, riflessioni e citazioni mutuate da artisti e intellettuali di ogni epoca e origine. A cominciare dal suo geniale mentore Alfred Jarry e dalla Patafisica, la vera “scienza”, baluardo di quell’ironia che irrora l’intero universo culturale di Baj. Fanno capolino, accanto alle innumerevoli personalità, anche oggetti che popolano la vita quotidiana dell’artista, come la Macchina agricola, una moto Kawasaki o un semplice ascensore: splendidi congegni meccanici ed erotici capaci non solo di titillare la curiosità del lettore ma anche di puntellare le convinzioni sociali, scientifiche, filosofiche, sostenute da Baj. Il quale per anni si è battuto non solo per un rinnovamento dell’arte della pittura ma anche per un profetico ritorno alla natura contro le minacce di una tecnologia sempre più totalizzante.
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Automitobiografia

Enrico Baj

pagine: 272 pagine + 12 (inserto)

Marcel e Suzanne Duchamp, Octavio Paz e Edoardo Sanguineti, Breton e Man Ray, de Chirico e la duchessa di Beaufort sono solo alcuni dei personaggi che compongono la fauna di questo racconto erudito e sagace, a tratti esplosivo, lontano da qualsiasi convenzione autobiografica. Procedendo a ritroso dal 1983, anno in cui viene pubblicata, al 1924, ann
Un posto per tutti - Vita, architettura e società giusta
Molto più di una semplice autobiografia, questo libro è un’improvvisazione jazz in cui si amalgamano memorie personali e idee per una società migliore. Raccoglie progetti, disegni e fotografie, collaborazioni e dispute. L’autore vi esprime la sua passione per le grandi città e gli spazi pubblici, il suo amore per la famiglia e gli amici, la sua fiducia nell’istruzione e nella cittadinanza attiva. In qualunque modo lo si voglia leggere, farà comprendere come l’architettura sia uno strumento fondamentale per far fronte alle due grandi sfide della nostra epoca: le disuguaglianze sociali e il cambiamento climatico.Nato a Firenze nel 1933 fra gli arredi modernisti del cugino Ernesto Nathan Rogers e una vista sulla cupola del Brunelleschi, Richard Rogers intuisce presto che la buona architettura deve riflettere i mutamenti della tecnologia e lo spirito della propria epoca. Così, terminati gli studi a Yale – dove incontra il futuro socio Norman Foster – s’imbarca in un road trip alla ricerca di idee e soluzioni progettuali innovative: le tinte forti della California e del Messico, le strutture aperte dell’architettura industriale, la leggerezza e il gioco di trasparenze delle Case Study Houses sono una grande fonte di ispirazione ed entrano per sempre in quel vocabolario visivo che porta con sé tornando a Londra. Parkside – la casa costruita per i suoi genitori a Wimbledon fra il 1968 e il 1969 – è il primo frutto dell’esperienza americana e contiene in nuce tutto il suo ethos architettonico: l’uso audace del colore e di elementi prefabbricati ecosostenibili, il valore della trasparenza e della flessibilità. È il prototipo di un edificio che si presta a molteplici cambiamenti d’uso, incarnando il noto diktat “lunga durata, ampia adattabilità, bassa energia”. È anche l’ultimo progetto di edilizia familiare prima di essere inghiottito – insieme a Renzo Piano – nel vortice del concorso per un importante edificio pubblico nel bel mezzo di Parigi.Oggi, a più di quarant’anni dal diluvio di critiche che ne accompagnò la costruzione e l’apertura, il Centre Pompidou continua a essere un’icona indiscussa della modernità e uno dei cuori pulsanti della vita cittadina, a dimostrare che l’architettura ha il potere di modellare le nostre vite: quella buona umanizza e civilizza, quella cattiva brutalizza.
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Un posto per tutti

Vita, architettura e società giusta

Richard Rogers

pagine: 372 pagine

Molto più di una semplice autobiografia, questo libro è un’improvvisazione jazz in cui si amalgamano memorie personali e idee per una società migliore. Raccoglie progetti, disegni e fotografie, collaborazioni e dispute. L’autore vi esprime la sua passione per le grandi città e gli spazi pubblici, il suo amore per la famiglia e gli amici, la
Le vite dei surrealisti
Il Surrealismo nasce all’indomani della Prima guerra mondiale più come stile di vita che come vero e proprio movimento artistico. Indignati verso un establishment che aveva reso possibile quel massacro, i surrealisti elaborano una strategia dell’inconscio capace di liberare l’uomo dai lacci della ragione e delle convenzioni estetiche restituendo un ruolo centrale alla dimensione onirica ed erotica per mezzo dell’automatismo psichico. A partire dal 1924 André Breton, principale teorico di questa dottrina, per oltre quarant’anni tiene le fila di un insolente gruppo di intellettuali che tra diaspore, ammutinamenti ed espulsioni costituisce una delle esperienze artistiche più affascinanti e travagliate del Novecento.Desmond Morris realizza la sua prima personale surrealista nel 1948 e, mentre si appresta a diventare uno dei più celebri divulgatori scientifici della sua generazione, frequenta per anni gli irresistibili personaggi di cui snocciola qui le avventure: Roberto Matta che si fa marchiare a fuoco il nome del marchese de Sade per rientrare nelle grazie di Breton; Giacometti che disdegna Marlene Dietrich (e le sue quarantaquattro valigie) in favore di una prostituta, Caroline Tamagno, nota soprattutto nella mala parigina; Miró e Masson costretti da Hemingway a fronteggiarsi in un fallimentare incontro di boxe; Salvador Dalí in tenuta da palombaro che – stecca da biliardo in resta e due levrieri al guinzaglio – dà spettacolo davanti a centinaia di giornalisti all’esposizione internazionale surrealista del 1936. Trentadue storie eccentriche che si snodano fra i bistrot della ville lumière e i posti più incongrui, come lo zoo di Londra, per approdare infine a New York, dove cominciano a spargersi i primi semi dell’Espressionismo Astratto. Inseguendo le caleidoscopiche proliferazioni del Surrealismo incarnate da artisti estremamente diversi tra loro – come Max Ernst, Picasso, Delvaux e Duchamp – Morris ne celebra l’intensità, il delirio e il mistero che, come direbbe Magritte, «non si può spiegare, bisogna solo lasciarsene avvolgere».
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Le vite dei surrealisti

Desmond Morris

pagine: 272 pagine

Il Surrealismo nasce all’indomani della Prima guerra mondiale più come stile di vita che come vero e proprio movimento artistico. Indignati verso un establishment che aveva reso possibile quel massacro, i surrealisti elaborano una strategia dell’inconscio capace di liberare l’uomo dai lacci della ragione e delle convenzioni estetiche restitu
Un monumento al momento - Medardo Rosso e le origini della scultura contemporanea
Artista amato dagli artisti, a cominciare da Boccioni che ne elogia la carica sovversiva, Medardo Rosso (1858-1928) è autore di un’opera rivoluzionaria che non ha cessato di influenzare ogni nuova generazione di scultori. Precursore di tendenze che hanno trovato pieno sviluppo solo nel Novecento, Rosso ha avuto una fortuna postuma straordinaria, lasciando segni indelebili su artisti come Brancusi, Giacometti e Moore, ma anche su numerosi contemporanei: Fabro ha dichiarato un sostanziale debito nei suoi confronti, e Anselmo, di fronte alle sculture in cera, riconosce come la materia forgiata da Rosso vibri dall’interno, quasi avesse un cuore pulsante. Fin dagli esordi, Rosso si pone un obiettivo irriverente: dematerializzare la scultura monumentale, che da eterna e celebrativa si fa con lui antieroica e capace di cogliere la fugacità del momento. Rivoluzionario lo è, però, anche nel travalicare le barriere geografiche in un’epoca in cui l’arte è fortemente definita dai confini nazionali. Cresciuto all’indomani dell’Unità d’Italia e disilluso dalle mancate promesse del Risorgimento, lascia il paese nel 1889 per trasferirsi a Parigi dove trascorrerà buona parte della sua vita. Emigrato per scelta e cosmopolita per vocazione, la sua personalità indomita lo rende ostile ad appartenenze di sorta, ma ricettivo verso ogni stimolo della modernità, dai nuovi canali di comunicazione ai progressi della fotografia, che gli consentono di attingere a una varietà di fonti visive e, a sua volta, di far circolare la propria opera come mai prima. Lavorando su piccola scala, inoltre, Rosso rende la più statica e pesante delle arti un prodotto facilmente trasportabile, in linea con le strategie poco ortodosse che elabora per promuovere il proprio lavoro.Questo saggio è il primo a collocare l’attività di Rosso in una prospettiva storica e transnazionale offrendo un’alternativa al racconto canonico sulla nascita della scultura moderna. Se da sempre si è assegnato a Rodin il ruolo di isolato ed eroico innovatore, Sharon Hecker restituisce il giusto peso a un artista che ha anticipato molte pratiche divenute oggi comuni nel vocabolario artistico globale.
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Un monumento al momento

Medardo Rosso e le origini della scultura contemporanea

Sharon Hecker

pagine: 320 pagine

Artista amato dagli artisti, a cominciare da Boccioni che ne elogia la carica sovversiva, Medardo Rosso (1858-1928) è autore di un’opera rivoluzionaria che non ha cessato di influenzare ogni nuova generazione di scultori. Precursore di tendenze che hanno trovato pieno sviluppo solo nel Novecento, Rosso ha avuto una fortuna postuma straordinaria,
Arturo Martini - La vita in figure
Scultore prodigioso nel forgiare immagini e narrare miti, Arturo Martini (1889-1947) si è consacrato interamente a quest’arte “misteriosa ed egoista” che sottrae ogni energia a chi la pratica, come lui stesso scrisse. Un’esistenza, se priva di momenti epici, tutta votata alla reinvenzione dell’iconografia, tanto che avrebbe potuto dire, con il poeta Lucio Piccolo, “la vita in figure mi viene”. L’infanzia lacerata dalla povertà e dai contrasti familiari in una Treviso ancora medioevale, il talento precoce nel dar forma alla creta, l’impiego – ancora giovinetto – nella bottega di un orefice, l’insperata borsa di studio che gli consente di studiare a Venezia con lo scultore Urbano Nono, sono i primi passi di un individuo nato “in condizioni disperate” ma destinato a rinnovare le arti plastiche. La sua parabola lo condurrà poi a Monaco nel 1909, tappa disagiata quanto carica di stimoli, e a Parigi nel 1912, mentre è tra i “ribelli” di Ca’ Pesaro e aderisce al Futurismo. Terminata la guerra, Martini ha già trent’anni e, seppur riconosciuto come uno dei migliori interpreti dei nuovi ideali classici incarnati da “Novecento” e Valori Plastici, fatica ancora a mantenere sé e la moglie Brigida. Solo alle soglie dei quaranta arriva per lui la “stagione del canto”, una fase felice accompagnata nel 1930 da un nuovo amore con la giovane Egle e nel 1931 dal leggendario premio di centomila lire alla Quadriennale di Roma. Sono gli anni in cui porta la terracotta a vette monumentali e in cui realizza nuovi capolavori in pietra e in bronzo. La serenità culmina però in un voltafaccia. Ormai all’apice della fama, con un accanimento senza precedenti, Martini si scaglia contro la scultura e la accusa di essere “lingua morta”. A questa inspiegabile abiura si aggiungono, implacabili, la malattia e l’umiliazione di un processo di epurazione nel 1945, che gli mineranno le forze fino a spegnerlo a nemmeno cinquantotto anni. Elena Pontiggia narra le vicende umane e artistiche di Martini con lucidità e chiarezza esemplari, arricchendo il volume di dati inediti che gettano nuova luce sul suo percorso espressivo.
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Arturo Martini

La vita in figure

Elena Pontiggia

pagine: 304 pagine

Scultore prodigioso nel forgiare immagini e narrare miti, Arturo Martini (1889-1947) si è consacrato interamente a quest’arte “misteriosa ed egoista” che sottrae ogni energia a chi la pratica, come lui stesso scrisse. Un’esistenza, se priva di momenti epici, tutta votata alla reinvenzione dell’iconografia, tanto che avrebbe potuto dire,
Night Studio - Un ritratto intimo di Philip Guston
Aggirandosi tra le sale della retrospettiva inaugurata in suo onore nel 1980, solo tre settimane prima della sua morte, Philip Guston aveva osservato che quella era più di una semplice mostra, era un’intera vita vissuta. Night Studio, pubblicato dalla figlia otto anni più tardi, è a sua volta una vita vissuta: è il resoconto dolce e amaro di una riconciliazione e un tentativo di entrare nel mondo di un padre per il quale l’arte era un atto di intenso egotismo.Raccogliendo memorie personali, ma anche lettere e appunti di Philip Guston, nonché interviste a chi lo aveva conosciuto, l’autrice ricompone una storia privata che comincia nella New York degli anni trenta, dove i genitori si trasferiscono in seguito a un promettente esordio come muralisti. Grazie ai sussidi del New Deal, a Manhattan è spuntata una vivace comunità di artisti ossessionati dall’idea di purezza in pittura che negli anni cinquanta balzerà agli onori della cronaca come Scuola di New York. Guston, alla perenne ricerca di un linguaggio tutto suo e diffidente verso le illusioni dell’arte per l’arte, approda tardi alla pittura non oggettiva: il vocabolario lirico e le pennellate voluttuose gli valgono una discreta fama, suggellata da una retrospettiva al Guggenheim già nel 1962. Ma alla fine gli oggetti avranno comunque la meglio. Nel 1968, in seguito a una paralizzante crisi creativa, le forme accumulate e negate per lungo tempo si materializzano in una cascata di immagini – prima semplici oggetti della vita quotidiana, poi figure enigmatiche e fumettistiche –, giudicate intollerabili dallo stesso mondo dell’arte che lo aveva consacrato. Quel mondo per il quale ha nutrito una crescente insofferenza ora lo disgusta al punto da lasciare New York per rifugiarsi in via definitiva a Woodstock con la moglie, Musa McKim. In questo commovente affresco autobiografico, accompagnato da un’ampia selezione di opere a colori e fotografie personali, Musa Mayer ripercorre la parabola umana e artistica del padre restituendo il giusto peso anche alla figura riservata ed elusiva della madre, una donna che ha scelto di fare un passo indietro rispetto alle proprie velleità per seguire gli umori mutevoli e quel bisogno di libertà che sono propri di ogni grande artista.
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Night Studio

Un ritratto intimo di Philip Guston

Musa Mayer

pagine: 292 pagine

Aggirandosi tra le sale della retrospettiva inaugurata in suo onore nel 1980, solo tre settimane prima della sua morte, Philip Guston aveva osservato che quella era più di una semplice mostra, era un’intera vita vissuta. Night Studio, pubblicato dalla figlia otto anni più tardi, è a sua volta una vita vissuta: è il resoconto dolce e amaro di
La mia arte, la mia vita
Mostro sacro del muralismo messicano, Diego Rivera è stato in realtà tante cose: sodale di Picasso, donnaiolo impenitente e amante vorace, fervido comunista ben presto espulso dal Partito e sedicente rivoluzionario dell’arte. Rievocando alcuni episodi salienti di questa sua storia personale, raccolta e trascritta dalla giornalista Gladys March, si rivela anche un narratore incapace di tenere a freno l’esuberante fantasia. Nella sua prosa, così come nella sua pittura, scorrono una travolgente passione per la vita e un’umanità multiforme: prostitute e rivoluzionari, politici corrotti e mecenati capitalisti, ma soprattutto la gente della propria terra, per la quale nutrirà sempre un amore profondo. Dopo i primi passi come pittore cubista in Europa, il ritorno in patria è vissuto infatti da Rivera come una rivelazione: il Messico, con i suoi colori infuocati e la sua luce intensa, le moltitudini gioiose al mercato e alle fiestas, gli si presenta come una fonte di incontenibile splendore. A cui attingerà al momento di ritrarre sulle enormi pareti degli edifici pubblici messicani la coscienza politica di un popolo, attraverso scene di schiavitù, di lotta sociale e immagini della cultura precolombiana, plasmando i tratti di quel muralismo che diventerà di lì a poco un movimento pittorico internazionale.L’autoritratto che si dipana sotto i nostri occhi assume via via i contorni di una confessione a cuore aperto, in cui l’autore non risparmia nessuno, men che meno se stesso. La sua versione dei fatti trova un controcanto nelle voci delle donne della sua vita – Angelina Beloff, Lupe Marín, Frida Kahlo, sposata per ben due volte, ed Emma Hurtado – raccolte in appendice. Giunto all’ultima pagina, al lettore non resta che chiedersi dove stia la verità su questo artista che è stato innanzitutto uno straordinario affabulatore o, nelle parole di Élie Faure, un creatore di miti, se non addirittura un mitomane.
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La mia arte, la mia vita

Diego Rivera

pagine: 204 pagine

Mostro sacro del muralismo messicano, Diego Rivera è stato in realtà tante cose: sodale di Picasso, donnaiolo impenitente e amante vorace, fervido comunista ben presto espulso dal Partito e sedicente rivoluzionario dell’arte. Rievocando alcuni episodi salienti di questa sua storia personale, raccolta e trascritta dalla giornalista Gladys March,
Basquiat - La regalità, l'eroismo e la strada
È il 10 febbraio 1985 e sulla copertina del New York Times Magazine troneggia un Jean-Michel Basquiat in pompa magna, seduto nel suo studio di Great Jones Street. Lo sguardo indolente fissa l’obiettivo mentre la mano impugna il pennello come un’arma. Il piede nudo, poggiato su una seggiola rovesciata che pare una carcassa di animale, spezza la formalità del completo Armani lasciando intravedere l’orlo del pantalone sporco di pittura. Distanze siderali lo separano dai tempi in cui, sottrattosi all’indifferenza borghese del padre e all’instabilità psichica della madre, ha scelto la strada, il mondo underground dei graffiti e della musica no wave, dei club, ma soprattutto i muri di New York per dare sfogo a quell’“ottanta percento di rabbia” che alimenta la sua fame di successo. Dall’anonimato di SAMO – il marchio con cui ha timbrato a fuoco la pelle di una città ancora ostaggio dei problemi razziali e del degrado urbano – nel giro di pochi anni Jean-Michel passa a firmare opere a quattro mani con Andy Warhol.È ormai il più noto pittore nero, il primo a ottenere una fama internazionale. Un traguardo fortemente voluto e raggiunto con caparbietà, ma che non tarda a trasformarsi in un’etichetta da appiccicargli addosso, in una gabbia dorata in cui l’establishment dell’arte sembra averlo rinchiuso e da cui nemmeno gli eccessi e forse l’ultimo, estremo tentativo di fuga – un ritorno alle origini, a quell’Africa meta del biglietto aereo che ha in tasca al momento della prematura morte a ventisette anni – riusciranno a salvarlo. Temperamento contraddittorio in un’epoca di contraddizioni, Basquiat vive sulla propria pelle e nella propria persona un turbinio di stimoli, un groviglio di emozioni che riversa poi sulla tela e su qualsiasi supporto abbia a portata di mano: parole, immagini e suoni si ricompongono magicamente in una forma nuova che fa di lui uno dei maggiori poeti visivi del Novecento.
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Basquiat

La regalità, l'eroismo e la strada

Michel Nuridsany

pagine: 384 pagine

È il 10 febbraio 1985 e sulla copertina del New York Times Magazine troneggia un Jean-Michel Basquiat in pompa magna, seduto nel suo studio di Great Jones Street. Lo sguardo indolente fissa l’obiettivo mentre la mano impugna il pennello come un’arma. Il piede nudo, poggiato su una seggiola rovesciata che pare una carcassa di animale, spezza la

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