fbevnts Tutti i libri di di Johan & Levi Editore | Pagina 13
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Catalogo

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Come vedere il mondo - Un'introduzione alle immagini: dall’autoritratto al selfie, dalle mappe ai film (e altro ancora)
Che il potere delle immagini sia cresciuto a dismisura è sotto gli occhi di tutti. Con l’avvento dei nuovi media, la loro produzione è cresciuta vertiginosamente e la loro circolazione è così pervasiva da scandire ogni momento della nostra vita. Solo negli Stati Uniti ogni due minuti vengono scattate più fotografie di quante se ne siano realizzate nell’intero XIX secolo, e ogni mese vengono caricati sul web novantatré milioni di selfie, per non parlare dei milioni di nuovi video postati quotidianamente sui social. Il mondo di oggi, sempre più giovane, urbanizzato, connesso e surriscaldato, ci appare inevitabilmente ridotto in frantumi. L’immagine stessa della Terra – non più quella compatta sfera di marmo blu immortalata nel 1972 dallo scatto analogico degli astronauti dell’Apollo 17 – ci viene presentata attraverso un mosaico di foto satellitari che ne ricompongono una forma molto fedele nei dettagli ma di fatto “virtuale”, perché non più legata a un unico luogo e tempo. Come possiamo allora reimparare a guardare un mondo che innovazioni tecnologiche, sconvolgimenti climatici e politici hanno trasformato radicalmente nel giro di pochi decenni, e che continua a mutare sotto i nostri occhi a una velocità insostenibile?Nicholas Mirzoeff esplora il modo in cui diamo forma alle immagini e come queste, a loro volta, plasmino la nostra esistenza, scatenando profondi cambiamenti politici e sociali. Nel farlo, l’autore distilla un vasto repertorio di scritti teorici – da John Berger a Walter Benjamin, da Michel Foucault a Gilles Deleuze – ed esamina in una prospettiva storica numerosi fenomeni della cultura contemporanea, muovendosi tra diverse discipline e contesti geografici. Dal selfie, una forma di autoritratto non più appannaggio esclusivo delle élite ma strumento con cui la maggioranza globale dialoga con se stessa, ai droni, che hanno sostituito i generali nell’arte di visualizzare la guerra, Come vedere il mondo è una mappa essenziale per orientarsi nel mare di immagini in cui siamo immersi.
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Come vedere il mondo

Un'introduzione alle immagini: dall’autoritratto al selfie, dalle mappe ai film (e altro ancora)

Nicholas Mirzoeff

pagine: 220 pagine

Che il potere delle immagini sia cresciuto a dismisura è sotto gli occhi di tutti. Con l’avvento dei nuovi media, la loro produzione è cresciuta vertiginosamente e la loro circolazione è così pervasiva da scandire ogni momento della nostra vita. Solo negli Stati Uniti ogni due minuti vengono scattate più fotografie di quante se ne siano real
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Duchamp oltre la fotografia - Strategie dell'infrasottile
Fin dagli esordi Duchamp ha intrecciato con la fotografia un rapporto fecondo che ha attraversato la sua opera a più livelli, caricando il medium di nuove potenzialità. Macchina che vede ma non sceglie, che preleva frammenti di realtà senza l’intervento diretto della mano dell’artista, l’apparecchio fotografico è del tutto congeniale alla poetica duchampiana dell’indifferenza e del non fare. Non a caso egli abbandona il disegno e la pittura più tradizionali – colpevoli di fermarsi al retinico, cioè a una sensorialità e quindi anche a una scelta dettata dal gusto – per abbracciare un’attitudine “infrasottile”, categoria che racchiude quanto sfugge alla percezione umana e che può essere colto unicamente con l’ausilio della materia grigia. L’immagine – in primis quella fotografica – non è mai solo quello che è, né mostra solo ciò che rappresenta. Al contrario, è una porta su qualcos’altro, una breccia in quella quarta dimensione su cui Duchamp si arrovella senza requie: essa richiede allo spettatore un supplemento di attenzione, un secondo sguardo che non si fermi alle apparenze, dietro le quali, come nel gioco degli scacchi, un gambetto è in agguato. Sarebbe ingannevole, per esempio, considerare le numerose apparizioni fotografiche di Duchamp – la sua tonsura a stella immortalata da Man Ray, l’artista seduto a un tavolino e mentre cammina per strada nelle celebri immagini di Ugo Mulas, o ancora lo strabiliante Marcel Duchamp all’età di 85 anni – come tradizionali ritratti d’autore o di circostanza. Nascono invece dall’azione combinata di chi sta davanti e dietro la macchina fotografica, in un complesso gioco di rimandi dove le allusioni impalpabili eppure cruciali all’arte di Duchamp non lasciano dubbi sulla loro intenzionalità come opere. Elio Grazioli documenta i casi in cui la fotografia e la riflessione su di essa fanno capolino nell’opera dell’artista e ne indaga le risonanze all’interno del sistema duchampiano. Un sistema in cui ciascun elemento entra a pieno titolo in una strategia complessiva che prescinde dalla diversità dei materiali e anticipa un modo di fare arte che è oggi fra i più diffusi: quello di non specializzarsi in un solo linguaggio ma di metterli tutti al servizio di un’idea.
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Duchamp oltre la fotografia

Strategie dell'infrasottile

Elio Grazioli

pagine: 88 pagine

Fin dagli esordi Duchamp ha intrecciato con la fotografia un rapporto fecondo che ha attraversato la sua opera a più livelli, caricando il medium di nuove potenzialità. Macchina che vede ma non sceglie, che preleva frammenti di realtà senza l’intervento diretto della mano dell’artista, l’apparecchio fotografico è del tutto congeniale alla
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Vedere l'invisibile - Saggio su Kandinsky
Ogni fenomeno è traccia materiale delle forze invisibili che l’hanno generato, fusione indissolubile di contenuto e forma, di elementi interiori ed esteriori. Così va intesa quella pittura che, affrancata da propositi figurativi, aspira a incarnare sensazioni, emozioni e passioni, in una parola: l’intima essenza della vita. Tale era il senso della rivoluzione operata all’alba del secolo scorso da Kandinsky, il fondatore della pittura astratta. Tale è l’oggetto di indagine di questo saggio di Michel Henry, il cui pensiero fenomenologico si snoda tutto attorno al tema della vita, quella vita che il “pioniere dei pionieri”, mira a rappresentare pittoricamente nella sua pulsante invisibilità. Non si tratta più di “astrarre da” qualche elemento del mondo visibile, né di cogliere un’esteriorità già di per sé costituita per restituirla in forma di immagine più o meno mimetica. La sfida è far venire alla luce qualcosa che prima non esisteva se non in una dimensione clandestina. Ma se il mezzo pittorico, per sua stessa definizione, è esibizione del visibile che si manifesta in forme e colori, come può dar corpo a una realtà nascosta alla vista? A partire dall’analisi dei testi teorici che hanno accompagnato lo sviluppo dell’arte astratta di Kandinsky e che ne costituiscono la via d’accesso privilegiata, Henry mostra come l’artista separi colore e linea dalle costrizioni della forma visibile: ogni linea è il prodotto di una forza, ogni colore è legato a una tonalità affettiva, a una sonorità interiore. Se siamo essenzialmente forza e affetto, allora linee e colori permettono al nostro essere più intimo di emergere. Più che dare avvio a un semplice movimento in pittura, l’astrazione di Kandinsky ci rivela dunque la verità profonda dell’arte, che in qualche misura è tutta astratta, svincolata da un’aderenza al mondo esterno. Cogliere i princìpi di questa rivoluzione equivale a comprendere che l’arte è l’espressione massima della potenza della vita e, in definitiva, la sua più esemplare oggettivazione.
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Vedere l'invisibile

Saggio su Kandinsky

Michel Henry

pagine: 176 pagine

Ogni fenomeno è traccia materiale delle forze invisibili che l’hanno generato, fusione indissolubile di contenuto e forma, di elementi interiori ed esteriori. Così va intesa quella pittura che, affrancata da propositi figurativi, aspira a incarnare sensazioni, emozioni e passioni, in una parola: l’intima essenza della vita. Tale era il senso
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Arturo Martini - La vita in figure
Scultore prodigioso nel forgiare immagini e narrare miti, Arturo Martini (1889-1947) si è consacrato interamente a quest’arte “misteriosa ed egoista” che sottrae ogni energia a chi la pratica, come lui stesso scrisse. Un’esistenza, se priva di momenti epici, tutta votata alla reinvenzione dell’iconografia, tanto che avrebbe potuto dire, con il poeta Lucio Piccolo, “la vita in figure mi viene”. L’infanzia lacerata dalla povertà e dai contrasti familiari in una Treviso ancora medioevale, il talento precoce nel dar forma alla creta, l’impiego – ancora giovinetto – nella bottega di un orefice, l’insperata borsa di studio che gli consente di studiare a Venezia con lo scultore Urbano Nono, sono i primi passi di un individuo nato “in condizioni disperate” ma destinato a rinnovare le arti plastiche. La sua parabola lo condurrà poi a Monaco nel 1909, tappa disagiata quanto carica di stimoli, e a Parigi nel 1912, mentre è tra i “ribelli” di Ca’ Pesaro e aderisce al Futurismo. Terminata la guerra, Martini ha già trent’anni e, seppur riconosciuto come uno dei migliori interpreti dei nuovi ideali classici incarnati da “Novecento” e Valori Plastici, fatica ancora a mantenere sé e la moglie Brigida. Solo alle soglie dei quaranta arriva per lui la “stagione del canto”, una fase felice accompagnata nel 1930 da un nuovo amore con la giovane Egle e nel 1931 dal leggendario premio di centomila lire alla Quadriennale di Roma. Sono gli anni in cui porta la terracotta a vette monumentali e in cui realizza nuovi capolavori in pietra e in bronzo. La serenità culmina però in un voltafaccia. Ormai all’apice della fama, con un accanimento senza precedenti, Martini si scaglia contro la scultura e la accusa di essere “lingua morta”. A questa inspiegabile abiura si aggiungono, implacabili, la malattia e l’umiliazione di un processo di epurazione nel 1945, che gli mineranno le forze fino a spegnerlo a nemmeno cinquantotto anni. Elena Pontiggia narra le vicende umane e artistiche di Martini con lucidità e chiarezza esemplari, arricchendo il volume di dati inediti che gettano nuova luce sul suo percorso espressivo.
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Arturo Martini

La vita in figure

Elena Pontiggia

pagine: 304 pagine

Scultore prodigioso nel forgiare immagini e narrare miti, Arturo Martini (1889-1947) si è consacrato interamente a quest’arte “misteriosa ed egoista” che sottrae ogni energia a chi la pratica, come lui stesso scrisse. Un’esistenza, se priva di momenti epici, tutta votata alla reinvenzione dell’iconografia, tanto che avrebbe potuto dire,
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Night Studio - Un ritratto intimo di Philip Guston
Aggirandosi tra le sale della retrospettiva inaugurata in suo onore nel 1980, solo tre settimane prima della sua morte, Philip Guston aveva osservato che quella era più di una semplice mostra, era un’intera vita vissuta. Night Studio, pubblicato dalla figlia otto anni più tardi, è a sua volta una vita vissuta: è il resoconto dolce e amaro di una riconciliazione e un tentativo di entrare nel mondo di un padre per il quale l’arte era un atto di intenso egotismo.Raccogliendo memorie personali, ma anche lettere e appunti di Philip Guston, nonché interviste a chi lo aveva conosciuto, l’autrice ricompone una storia privata che comincia nella New York degli anni trenta, dove i genitori si trasferiscono in seguito a un promettente esordio come muralisti. Grazie ai sussidi del New Deal, a Manhattan è spuntata una vivace comunità di artisti ossessionati dall’idea di purezza in pittura che negli anni cinquanta balzerà agli onori della cronaca come Scuola di New York. Guston, alla perenne ricerca di un linguaggio tutto suo e diffidente verso le illusioni dell’arte per l’arte, approda tardi alla pittura non oggettiva: il vocabolario lirico e le pennellate voluttuose gli valgono una discreta fama, suggellata da una retrospettiva al Guggenheim già nel 1962. Ma alla fine gli oggetti avranno comunque la meglio. Nel 1968, in seguito a una paralizzante crisi creativa, le forme accumulate e negate per lungo tempo si materializzano in una cascata di immagini – prima semplici oggetti della vita quotidiana, poi figure enigmatiche e fumettistiche –, giudicate intollerabili dallo stesso mondo dell’arte che lo aveva consacrato. Quel mondo per il quale ha nutrito una crescente insofferenza ora lo disgusta al punto da lasciare New York per rifugiarsi in via definitiva a Woodstock con la moglie, Musa McKim. In questo commovente affresco autobiografico, accompagnato da un’ampia selezione di opere a colori e fotografie personali, Musa Mayer ripercorre la parabola umana e artistica del padre restituendo il giusto peso anche alla figura riservata ed elusiva della madre, una donna che ha scelto di fare un passo indietro rispetto alle proprie velleità per seguire gli umori mutevoli e quel bisogno di libertà che sono propri di ogni grande artista.
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Night Studio

Un ritratto intimo di Philip Guston

Musa Mayer

pagine: 292 pagine

Aggirandosi tra le sale della retrospettiva inaugurata in suo onore nel 1980, solo tre settimane prima della sua morte, Philip Guston aveva osservato che quella era più di una semplice mostra, era un’intera vita vissuta. Night Studio, pubblicato dalla figlia otto anni più tardi, è a sua volta una vita vissuta: è il resoconto dolce e amaro di
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La mia arte, la mia vita
Mostro sacro del muralismo messicano, Diego Rivera è stato in realtà tante cose: sodale di Picasso, donnaiolo impenitente e amante vorace, fervido comunista ben presto espulso dal Partito e sedicente rivoluzionario dell’arte. Rievocando alcuni episodi salienti di questa sua storia personale, raccolta e trascritta dalla giornalista Gladys March, si rivela anche un narratore incapace di tenere a freno l’esuberante fantasia. Nella sua prosa, così come nella sua pittura, scorrono una travolgente passione per la vita e un’umanità multiforme: prostitute e rivoluzionari, politici corrotti e mecenati capitalisti, ma soprattutto la gente della propria terra, per la quale nutrirà sempre un amore profondo. Dopo i primi passi come pittore cubista in Europa, il ritorno in patria è vissuto infatti da Rivera come una rivelazione: il Messico, con i suoi colori infuocati e la sua luce intensa, le moltitudini gioiose al mercato e alle fiestas, gli si presenta come una fonte di incontenibile splendore. A cui attingerà al momento di ritrarre sulle enormi pareti degli edifici pubblici messicani la coscienza politica di un popolo, attraverso scene di schiavitù, di lotta sociale e immagini della cultura precolombiana, plasmando i tratti di quel muralismo che diventerà di lì a poco un movimento pittorico internazionale.L’autoritratto che si dipana sotto i nostri occhi assume via via i contorni di una confessione a cuore aperto, in cui l’autore non risparmia nessuno, men che meno se stesso. La sua versione dei fatti trova un controcanto nelle voci delle donne della sua vita – Angelina Beloff, Lupe Marín, Frida Kahlo, sposata per ben due volte, ed Emma Hurtado – raccolte in appendice. Giunto all’ultima pagina, al lettore non resta che chiedersi dove stia la verità su questo artista che è stato innanzitutto uno straordinario affabulatore o, nelle parole di Élie Faure, un creatore di miti, se non addirittura un mitomane.
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La mia arte, la mia vita

Diego Rivera

pagine: 204 pagine

Mostro sacro del muralismo messicano, Diego Rivera è stato in realtà tante cose: sodale di Picasso, donnaiolo impenitente e amante vorace, fervido comunista ben presto espulso dal Partito e sedicente rivoluzionario dell’arte. Rievocando alcuni episodi salienti di questa sua storia personale, raccolta e trascritta dalla giornalista Gladys March,
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Archivi impossibili - Un'ossessione dell'arte contemporanea
Ben prima che la diffusione dei social network e dei mezzi di registrazione ci rendesse tutti potenziali archivisti, gli artisti contemporanei hanno ripensato le forme di catalogazione usando linguaggi e media a loro disposizione, spesso ispirandosi a compendi visivi e “musei portatili” di illustri antecedenti novecenteschi, come il Bilderatlas di Warburg e il museo immaginario di Malraux. Dall’atlante di Gerhard Richter, una collezione di migliaia di immagini utilizzate come fonti iconografiche per la pittura, all’album di Hanne Darboven, una monumentale cosmologia che condensa storia personale e memoria collettiva, al museo di Marcel Broodthaers, un sagace strumento di critica istituzionale, allo schedario di Hans Haacke, un mezzo di indagine e di impegno sociopolitico, il furore archivistico si è ormai impossessato della pratica artistica. Che dietro ogni slancio tassonomico ci sia desiderio di ordine, ricerca identitaria, insofferenza verso la tradizionale organizzazione della conoscenza e del potere o un mero horror vacui che spinge i disposofobici a realizzare dei veri santuari della banalità, alla base c’è sempre il bisogno di restituire una logica più profonda a relitti e tracce: prelevati, assemblati e reimmessi in un nuovo contesto, si caricano di un valore inatteso. Ecco allora che l’archivio non è più solo un cumulo inerte di documenti da cui scaturisce quel turbamento che Derrida associa al processo mnestico, ma diventa, in senso foucaultiano, un dispositivo critico capace di rigenerare le consuete logiche di salvaguardia, utilizzo e diffusione del sapere, di riattivare la memoria e la coscienza politica. In quest’ottica, l’artista diventa attore primario del cambiamento sociale e culturale. Cristina Baldacci ripercorre in questo volume la lunga e articolata storia dell’interesse per la pratica archivistica ricomponendo il ricco mosaico dei ruoli e dei significati che l’archivio ha assunto nel corso del tempo e la sua rilevanza come opera d’arte, quindi come sistema classificatorio atipico e, per certi versi, impossibile.
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Archivi impossibili

Un'ossessione dell'arte contemporanea

Cristina Baldacci

pagine: 224

Ben prima che la diffusione dei social network e dei mezzi di registrazione ci rendesse tutti potenziali archivisti, gli artisti contemporanei hanno ripensato le forme di catalogazione usando linguaggi e media a loro disposizione, spesso ispirandosi a compendi visivi e “musei portatili” di illustri antecedenti novecenteschi, come il Bilderatlas
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Superfici - A proposito di estetica, materialità e media
In una cultura segnata dal virtuale e dal rapido susseguirsi di nuovi media, che posto diamo alla superficie, espressione stessa di una sostanza fisica? Spazio di confine fra mondo interno ed esterno, soglia che separa il visivo dal tattile, la superficie è anche e soprattutto un luogo di relazioni materiali. Per scoprire la materialità delle immagini che popolano il contemporaneo e coglierne la portata, diventa allora indispensabile esplorare lo spazio di tali relazioni e il modo in cui vengono mediate attraverso superfici che assumono di volta in volta le fattezze di una pelle, di un vestito, di uno schermo cinematografico o di una tela, fino ad arrivare ai monitor che dominano il nostro vivere quotidiano. Seguire il filo di questi incontri significa svelare la tessitura che compone il visuale e comprendere che l’immagine non è un mero elemento bidimensionale, ma qualcosa di poroso, un’epidermide che assorbe il tempo, un luogo in cui possono concretizzarsi forme di memoria e di trasformazione, un dispositivo che mette in contatto dimensioni spaziotemporali distanti. Ragionando a fondo sulle relazioni oggettuali tra arte, architettura, moda, design, cinema e nuovi media, Giuliana Bruno si interroga sul concetto di materialità e sulle sue molteplici manifestazioni. Superfici è un magistrale vagabondaggio nella cultura visuale contemporanea, una passeggiata che attraversa gli ambienti luminosi di artisti come Robert Irwin, James Turrell, Tacita Dean e Anthony Mc- Call, tocca le superfici tattili degli schermi cinematografici di Isaac Julien, Sally Potter e Wong Kar-wai e viaggia attraverso la materialità delle pratiche architettoniche di Diller Scofidio + Renfro e Herzog & de Meuron fino all’arte di Doris Salcedo e Rachel Whiteread, nelle quali la tensione di superficie dei media si tocca con mano. Una dissertazione che riesce a sfatare un mito, che la superficie sia un fatto superficiale.
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Superfici

A proposito di estetica, materialità e media

Giuliana Bruno

pagine: 320 pagine

In una cultura segnata dal virtuale e dal rapido susseguirsi di nuovi media, che posto diamo alla superficie, espressione stessa di una sostanza fisica? Spazio di confine fra mondo interno ed esterno, soglia che separa il visivo dal tattile, la superficie è anche e soprattutto un luogo di relazioni materiali. Per scoprire la materialità delle imm
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Mettere in scena l'arte contemporanea - Dallo spazio dell'opera allo spazio intorno all'opera
L’opera d’arte e lo spazio che la circonda vivono in un rapporto di stretta interdipendenza: questo saggio mette a fuoco tale relazione simbiotica, e lo fa attraverso una cospicua cronistoria delle principali sperimentazioni installative e ambientali dalle avanguardie fino ai giorni nostri. Un modo per ripercorrere l’evoluzione del sistema dell’arte e l’itinerario che ha condotto al paradosso postmoderno per cui collocare un qualsiasi artefatto in un particolare contesto è di per sé sufficiente affinché si compia la sua trasfigurazione in dispositivo artistico. È la cronaca di un rapporto in perenne tensione, quello fra testo e contesto, fra contenuto e contenitore. E a pungolarlo, provocando l’evoluzione non solo dell’arte ma anche delle caratteristiche degli spazi espositivi, sono sempre e soprattutto gli artisti più all’avanguardia. La loro ricerca si articola attraverso un fitto dialogo con lo spazio reale, che via via è coinvolto in maniera costitutiva nell’ideazione delle opere. Si comincia con il superamento dei limiti convenzionali del piedistallo e della cornice: il quadro, messo a nudo, esce nel mondo accogliendo nel suo recinto frammenti della realtà.Dal caso emblematico di Fontana, che nel secondo dopoguerra invade l’ambiente circostante per dare vita alle prime opere realizzate utilizzando solo lo spazio e la luce, si arriva alla creazione di installazioni di ampio impatto ambientale, spesso site-specific con gli artisti processuali, poveristi, concettuali e della Land Art tra gli altri; fino alla consapevolezza, oggi del tutto assunta, che l’opera d’arte trova la propria ragion d’essere in relazione all’ambiente e all’osmosi che con esso si instaura.Una trattazione allo stesso tempo chiara e sistematica, in cui vengono documentate anche le mostre e le rassegne internazionali più paradigmatiche fino alle esperienze più attuali; tutto questo senza ignorare l’importanza dei curatori, figure ormai onnipresenti per la loro capacità (vera o presunta) di mettere in scena eventi espositivi da considerare come produzioni creative in sé, subordinando lo spazio dell’opera allo spazio da loro gestito.
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Mettere in scena l'arte contemporanea

Dallo spazio dell'opera allo spazio intorno all'opera

Francesco Bernardelli, Francesco Poli

pagine: 264 pagine

L’opera d’arte e lo spazio che la circonda vivono in un rapporto di stretta interdipendenza: questo saggio mette a fuoco tale relazione simbiotica, e lo fa attraverso una cospicua cronistoria delle principali sperimentazioni installative e ambientali dalle avanguardie fino ai giorni nostri. Un modo per ripercorrere l’evoluzione del sistema de
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Basquiat - La regalità, l'eroismo e la strada
È il 10 febbraio 1985 e sulla copertina del New York Times Magazine troneggia un Jean-Michel Basquiat in pompa magna, seduto nel suo studio di Great Jones Street. Lo sguardo indolente fissa l’obiettivo mentre la mano impugna il pennello come un’arma. Il piede nudo, poggiato su una seggiola rovesciata che pare una carcassa di animale, spezza la formalità del completo Armani lasciando intravedere l’orlo del pantalone sporco di pittura. Distanze siderali lo separano dai tempi in cui, sottrattosi all’indifferenza borghese del padre e all’instabilità psichica della madre, ha scelto la strada, il mondo underground dei graffiti e della musica no wave, dei club, ma soprattutto i muri di New York per dare sfogo a quell’“ottanta percento di rabbia” che alimenta la sua fame di successo. Dall’anonimato di SAMO – il marchio con cui ha timbrato a fuoco la pelle di una città ancora ostaggio dei problemi razziali e del degrado urbano – nel giro di pochi anni Jean-Michel passa a firmare opere a quattro mani con Andy Warhol.È ormai il più noto pittore nero, il primo a ottenere una fama internazionale. Un traguardo fortemente voluto e raggiunto con caparbietà, ma che non tarda a trasformarsi in un’etichetta da appiccicargli addosso, in una gabbia dorata in cui l’establishment dell’arte sembra averlo rinchiuso e da cui nemmeno gli eccessi e forse l’ultimo, estremo tentativo di fuga – un ritorno alle origini, a quell’Africa meta del biglietto aereo che ha in tasca al momento della prematura morte a ventisette anni – riusciranno a salvarlo. Temperamento contraddittorio in un’epoca di contraddizioni, Basquiat vive sulla propria pelle e nella propria persona un turbinio di stimoli, un groviglio di emozioni che riversa poi sulla tela e su qualsiasi supporto abbia a portata di mano: parole, immagini e suoni si ricompongono magicamente in una forma nuova che fa di lui uno dei maggiori poeti visivi del Novecento.
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Basquiat

La regalità, l'eroismo e la strada

Michel Nuridsany

pagine: 384 pagine

È il 10 febbraio 1985 e sulla copertina del New York Times Magazine troneggia un Jean-Michel Basquiat in pompa magna, seduto nel suo studio di Great Jones Street. Lo sguardo indolente fissa l’obiettivo mentre la mano impugna il pennello come un’arma. Il piede nudo, poggiato su una seggiola rovesciata che pare una carcassa di animale, spezza la
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Una squisita indifferenza - Perché l'arte moderna è moderna
Un giorno del 1823, su un campo da calcio nel Nord dell’Inghilterra, un giocatore prese il pallone tra le braccia e, con squisita indifferenza per le regole del gioco, si mise a correre: aveva inventato il rugby. È opinione diffusa che intorno al 1860 alcuni artisti abbiano inventato l’arte moderna rifiutando tutte le norme della tradizione e liberandosi da quei vincoli che, come la prospettiva, formavano il linguaggio artistico comunemente accettato e capito. Ma non andò così: Degas, van Gogh, Rodin, Gauguin e Picasso non si limitarono a sottrarsi alle regole del gioco, ma proprio come l’inventore del rugby decisero di cogliere le possibilità che si nascondevano nell’arte tradizionale per creare un gioco nuovo con un nuovo sistema di regole. Kirk Varnedoe, con questo saggio brillante per scrittura e imprescindibile per ricchezza e profondità di analisi, ci offre una panoramica della nascita e degli sviluppi dell’arte moderna, elaborando un’interpretazione originale e sotto molti aspetti rivoluzionaria.Secondo lo studioso americano è semplicistico attribuire la nuova dimensione pittorica imboccata da Degas e van Gogh alle influenze della fotografia e della prospettiva piatta delle stampe giapponesi. Ed è altrettanto riduttivo interpretare il primitivismo di Gauguin e Picasso come un anelito romantico verso esotiche rappresentazioni di mondi lontani: la sua forza innovativa risulta invece dal libero confronto e scambio di forme che, sottratte ai loro contesti originari, danno vita a nuovi complessi di significati. L’analisi della frammentazione e serializzazione nelle sculture di Rodin si rivela una tappa fondamentale per far luce su come il percorso dell’arte astratta non riguardi soltanto una pura questione di forma. E l’improvvisa diffusione del punto di vista aereo nella pittura della Belle Époque e nelle avanguardie russe degli anni venti è uno degli strumenti che Varnedoe ci offre per capire non solo quanto sia dialettico il rapporto fra storia dell’arte e storia delle idee, ma perfino quale sia il legame che unisce le ballerine di Degas all’Espressionismo Astratto di Pollock e alle successive tendenze minimaliste.
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Una squisita indifferenza

Perché l'arte moderna è moderna

Kirk Varnedoe

pagine: 220 pagine

Un giorno del 1823, su un campo da calcio nel Nord dell’Inghilterra, un giocatore prese il pallone tra le braccia e, con squisita indifferenza per le regole del gioco, si mise a correre: aveva inventato il rugby. È opinione diffusa che intorno al 1860 alcuni artisti abbiano inventato l’arte moderna rifiutando tutte le norme della tradiz

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