Tutti i libri di di Johan & Levi Editore | P. 14
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Catalogo

La collezione come forma d’arte
Se ogni epoca ha un suo modo di collezionare, quello contemporaneo è segnato da un reciproco legame con la pratica artistica, tanto che le due attività spesso si sovrappongono fin quasi a confondersi. Gli esempi abbondano: da Joseph Cornell, cacciatore di bizzarrie con cui compone le sue scatole divinatorie, a Claes Oldenburg, che espone come opera propria una raccolta di oggetti d’affezione; da Marcel Broodthaers, per cui il collezionare è all’origine della scelta di diventare artista, a Hans-Peter Feldmann che, sulla scia di Malraux, da anni ritaglia, classifica e incolla immagini per un insolito museo. Il collezionismo non è più solo affare di chi, non artista, raccoglie oggetti in quantità rilevante, ma diventa modalità espressiva di quegli artisti che li radunano per costruire opere d’arte secondo il principio warburghiano del montaggio. D’altro canto, lo stesso collezionista è un artista che accetta di esprimersi tramite immagini dotate di un forte potere simbolico, le quali diventano un’estensione della sua persona. Appena l’occhio li cattura, gli oggetti si caricano di qualità supplementari: spogliati della loro funzione, un sapiente lavoro di accostamenti e rimandi crea fra loro un fertile dialogo, dando vita a un insieme organico che non tollera mutilazioni. La collezione assume così lo statuto di opera d’arte.Eclettismo, trasversalità, soffio personale definiscono una tipologia di collezione agli antipodi rispetto a quella chiusa e preordinata dei musei. A questa dimensione più privata e creativa fa riferimento Elio Grazioli il quale, nel ricostruire il percorso che dalla Wunderkammer porta al collage e all’assemblage, racconta un collezionismo non utilitarista ma passionale, meno vetrina di rappresentanza e più gioco per intenditori che sappiano apprezzare le articolazioni impreviste. Pratica, questa, che ha molto da insegnare a quelle istituzionali: una maggiore libertà e una necessità più sentita.
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La collezione come forma d’arte

Elio Grazioli

pagine: 128 pagine

Se ogni epoca ha un suo modo di collezionare, quello contemporaneo è segnato da un reciproco legame con la pratica artistica, tanto che le due attività spesso si sovrappongono fin quasi a confondersi. Gli esempi abbondano: da Joseph Cornell, cacciatore di bizzarrie con cui compone le sue scatole divinatorie, a Claes Oldenburg, che espone come ope
Mario Schifano - Una biografia
«Mi conoscono anche quelli che non mi conoscono, quindi inventate quello che volete»: così Mario Schifano era solito allontanare gli aspiranti biografi che lo assediavano. Tanto che al giorno d’oggi uno degli artisti italiani più prolifici e amati – nonché falsificati e chiacchierati – del xx secolo paradossalmente è anche uno dei meno conosciuti. Attraverso una narrazione a più voci delle persone che lo hanno “vissuto”, seguito e sopportato, Luca Ronchi ci offre una possibile biografia di Mario Schifano, con tutti i lati oscuri, le sorprese, le debolezze e l’intimità di un personaggio ormai entrato nella leggenda.Lo scenario del viaggio nel tempo propostoci da Ronchi non può che essere Roma, il «paesone cosmopolita» che durante la guerra accoglie Schifano ancora bambino di ritorno dalle bianche spiagge della Libia. Sotto gli indimenticabili cieli della Città Eterna, sulla terrazza di piazza Scanderbeg che fungeva da studio en plein air, nei primi anni sessanta Mario inizia a dipingere quei monocromi che lo renderanno uno dei protagonisti dell’arte italiana del Novecento. Ed è sempre a Roma che decide di continuare la sua avventura pittorica e di costruire, in un vortice di «lucida follia», il suo universo underground all’insegna della trasversalità e del “meticciamento”. Fonda un gruppo pop-rock; si cimenta in filmati all’avanguardia; frequenta intellettuali e aristocratici; cambia macchine, abiti e televisori con una rapidità sconvolgente; viene arrestato e “messo alla gogna” per il consumo di sostanze stupefacenti: simile a «un piccolo puma di cui non si sospetterebbe mai la muscolatura e lo scatto, molto elegante nei movimenti e nei comportamenti», Schifano era da tutte le parti, non stava mai fermo. Dotato di un fascino innato e di una «bellezza alla Rodolfo Valentino», è anche un grande seduttore: da dive come Marianne Faithfull o Maria Schneider alle sue tre donne più importanti Anita Pallenberg, Nancy Ruspoli e Monica De Bei, la madre di suo figlio.Forse nell’immaginario popolare Schifano resterà sempre l’incarnazione perfetta della concezione romantica che vede nell’artista genio e sregolatezza. Oltre la fama, però, spenti i flash delle cronache mondane c’è un pittore ancora tutto da scoprire che negli ultimi tempi amava citare una frase di Lucian Freud: the man is nothing, the work is everything.
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Mario Schifano

Una biografia

Luca Ronchi

pagine: 416 pagine

«Mi conoscono anche quelli che non mi conoscono, quindi inventate quello che volete»: così Mario Schifano era solito allontanare gli aspiranti biografi che lo assediavano. Tanto che al giorno d’oggi uno degli artisti italiani più prolifici e amati – nonché falsificati e chiacchierati – del xx secolo paradossalmente è anche uno dei meno
Memorie di un mercante di quadri
Scritti in prima persona a mo’ di aneddoti sul suo esordio nel mestiere, i ricordi del leggendario mercante di quadri hanno il merito di restituirci l’atmosfera di un mondo ormai scomparso.Siamo nella Parigi di fine Ottocento, i pittori “rifiutati” si impongono, a poco a poco, come principali attori della scena su cui muove i primi passi il giovane Vollard. Sbarcato nella capitale per proseguire gli studi di Diritto, non tarda ad abbandonare la toga per frequentare librerie e bancarelle, dove scova stampe e disegni a buon mercato che saranno i suoi primi materiali di scambio. Dotato di uno spregiudicato senso per gli affari, ha anche l’indispensabile fiuto per capire da che parte tira il vento: fa visita alla vedova di Manet, e torna a casa con un’intera raccolta di disegni del maestro; stringe amicizia con Renoir, Degas e soprattutto Pissarro, di cui segue i consigli; rastrella lo studio di Cézanne, poi quelli di Vlaminck, Derain e Picasso; assume una posizione coraggiosa nel mercato d’avanguardia esponendo van Gogh e Gauguin.Con grande audacia Vollard salta dalla pittura, alle stampe, ai libri e diversifica così il lavoro, il suo e quello degli artisti intorno a sé. Unendo due vecchie passioni, la letteratura e la grafica, diventa editore di libri d’arte di gran pregio, illustrati dai pittori ed esposti insieme ai dipinti nella stessa bottega di rue Laffitte. L’epoca è propizia per chi ha una galleria nella “strada dei quadri”, centro di gravità per mercanti e collezionisti dove è facile imbattersi in Matisse, Renoir, Degas, Redon, Apollinaire, Jarry, spesso ospiti delle indimenticabili cene alla Cantina Vollard. È nel corso di tali serate che l’anfitrione tende il suo “orecchio da mercante” per registrare ogni battuta e poterci trasmettere, con la straordinaria verve della presa in diretta, dialoghi e tranches de vie dei più grandi artisti dell’epoca. Sono loro i veri protagonisti delle sue memorie, eppure il lettore coglierà, fra le righe, un’immagine precisa dello stesso Vollard, il mercante di quadri per eccellenza, senz’altro il più immortalato, come dimostrano gli innumerevoli ritratti eseguiti dai pittori del suo entourage, alcuni dei quali riprodotti nelle pagine di questo libro.
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Memorie di un mercante di quadri

Ambroise Vollard

pagine: 320 pagine

Scritti in prima persona a mo’ di aneddoti sul suo esordio nel mestiere, i ricordi del leggendario mercante di quadri hanno il merito di restituirci l’atmosfera di un mondo ormai scomparso.Siamo nella Parigi di fine Ottocento, i pittori “rifiutati” si impongono, a poco a poco, come principali attori della scena su cui muove i primi passi il
Breve storia della globalizzazione in arte - (e delle sue conseguenze)
Da almeno un decennio il sistema dell’arte occidentale deve far fronte all’avanzata, sullo scacchiere mondiale, di nuovi soggetti che minacciano di imporre regole diverse, più congeniali ai loro mercati. Una svolta radicale negli equilibri si respirava già negli anni ottanta, quando l’arte è diventata un’opportunità economica dai potenziali globali. Grazie a linguaggi accessibili a tutti, il Postmodernismo ha conquistato un pubblico sempre più vasto, prosperando verso territori sconfinati: la febbrile impennata del desiderio di arte contemporanea ha preparato il terreno all’ascesa dell’opera a status symbol e ha allargato l’orizzonte a paesi come Cina, Russia e India in cerca di riconoscimenti nel consesso occidentale.L’euforia di quegli anni si è presto smorzata nell’attuale clima di incertezza causato dallo sfaldamento del vecchio assetto e dall’esautorazione delle sue componenti, quella intellettuale (il critico, che legittimava le pratiche artistiche) e quella istituzionale (il museo, che le consacrava per la posterità). Oggi a decretare il successo è lo spirito speculativo – in tutti i sensi – dei nuovi protagonisti che, con l’abilità di chi manovra grossi capitali, fanno il bello e il cattivo tempo nel circuito chiuso galleria-collezionista-casa d’aste-museo. Perfino l’artista, un tempo motore del sistema, rischia di essere ridotto a mero ingranaggio. Cosciente del contesto in cui opera, ha saputo assecondare il depauperamento indotto dalla globalizzazione: se in passato mirava all’innovazione, oggi aderisce a standard linguistici immediatamente riconoscibili in ogni angolo del mondo.Con un approccio storico volto a scandagliare il passato per cogliere le complesse trasformazioni in atto, Marco Meneguzzo individua lo spartiacque tra il prima e il dopo, cioè tra un’arte come fatto esclusivo ed elitario e un’arte come fenomeno popolare e globalizzato. Un breve saggio di ampio respiro per comprendere il tempo che stiamo vivendo e quello che ci aspetta: un futuro in bilico tra un mutamento soffice del sistema dell’arte (e della stessa concezione di arte) e una sua variante apocalittica.
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Breve storia della globalizzazione in arte

(e delle sue conseguenze)

Marco Meneguzzo

pagine: 176 pagine

Da almeno un decennio il sistema dell’arte occidentale deve far fronte all’avanzata, sullo scacchiere mondiale, di nuovi soggetti che minacciano di imporre regole diverse, più congeniali ai loro mercati. Una svolta radicale negli equilibri si respirava già negli anni ottanta, quando l’arte è diventata un’opportunità economica dai potenz
Inside the White Cube - L'ideologia dello spazio espositivo
C’era una volta il quadro da cavalletto, con una massiccia cornice e un sistema prospettico completo in cui era incassata un’illusione di realtà. Poi, all’orizzonte, spuntano i paesaggi impressionisti e iniziano a dare istruzioni all’osservatore: dove deve stare, qual è la distanza giusta da cui guardare, che atteggiamento assumere. Ma non è finita qui. Le enormi tele degli espressionisti astratti, cariche di tensione vitale, si espandono ancora di più lateralmente e arrivano a sfondare il margine. La cornice, ormai una parentesi, si dissolve liberando l’illusione e come per magia la sua funzione si trasferisce allo spazio espositivo. I tempi sono maturi perché Marcel Duchamp, nel 1938, appenda al soffitto della Galerie Beaux-Arts 1200 sacchi di carbone e i visitatori si ritrovano a testa in giù. Per la prima volta lo spazio espositivo viene trattato come una scatola, una vetrina da manipolare. Con un unico affondo il gesto di Duchamp «sbaraglia il toro della storia dell’arte»: gli anni passano e, come in una camera d’eco, esso apparirà sempre più riuscito.Il white cube inizia a divorare l’oggetto, il contesto ruba la scena all’opera esposta e diventa una “camera di trasformazione” che rende arte qualunque cosa vi entri. La galleria può anche restare vuota, riempirsi d’immondizia, rimanere chiusa per tutta la mostra, simulare uno spazio della vita reale, essere impacchettata insieme all’intero edificio del museo con incerata e corda, ospitare tableaux vivants o happenings scioccanti. Quelle stesse scene, fuori dal white cube, probabilmente non desterebbero la minima attenzione, ma al suo interno anche la nostra quotidianità – il bar, la camera da letto, la stazione di servizio – diventa arte, un’esperienza che va oltre il guardare.Come a bordo di un’astronave, scrutando la Terra che si allontana all’orizzonte, Brian O’Doherty ricostruisce una storia dell’arte del Novecento dalla prospettiva dell’evoluzione dello spazio espositivo, da considerare ormai «l’arena incontestata del discorso».
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Inside the White Cube

L'ideologia dello spazio espositivo

Brian O'Doherty

pagine: 146 pagine

C’era una volta il quadro da cavalletto, con una massiccia cornice e un sistema prospettico completo in cui era incassata un’illusione di realtà. Poi, all’orizzonte, spuntano i paesaggi impressionisti e iniziano a dare istruzioni all’osservatore: dove deve stare, qual è la distanza giusta da cui guardare, che atteggiamento assumere. Ma no
Il piacere dell'arte - Pratica e fenomenologia del collezionismo contemporaneo in Italia
Come un bacillo virulento che si propaga in modo incontrollato, il collezionismo può indurre chi ne è affetto a veri e propri eccessi, come sgomberare case per lasciare posto alle opere o dilapidare interi patrimoni per una voglia di possesso così forte da diventare difficilmente governabile. Che cosa ne accende la scintilla? Propensione alla speculazione finanziaria, puro piacere intellettuale o il desiderio di diventare “qualcuno” poggiando sull’arte le fondamenta del proprio prestigio sociale? Se molti sono i motivi e gli approcci possibili, da quello militante a quello passionale, mettere insieme una collezione rappresenta comunque un percorso di conoscenza verso la scoperta di sé.Il piacere dell’arte offre un quadro del collezionismo contemporaneo in Italia, che in tempi recenti ha assunto un passo sempre più autorevole non solo per l’intraprendenza delle iniziative, ma anche per la crescente progettualità che caratterizza molte raccolte. Partendo da fondamentali cenni storici, indagando quindi l’humus in cui sono emerse figure di spicco come Giorgio Franchetti, Giuseppe Panza e Marcello Levi e lasciando infine la parola ai protagonisti contemporanei, il libro mira anche a identificare le cause di una “mancata modernità” del collezionismo italiano, imbrigliato da vincoli come la notifica e un’IVA fra le più alte d’Europa. Se tali impedimenti burocratici e fiscali da un lato frenano il dialogo con le istituzioni (a differenza di quanto accade oltreoceano dove le donazioni ai musei sono incentivate da sgravi), dall’altra danno luogo a un forte sviluppo dell’iniziativa privata favorendo l’apertura al pubblico di numerose fondazioni. È questo il tratto più peculiare del panorama italiano, una realtà complessa e ricca di sfaccettature le cui potenzialità risultano tanto più interessanti da indagare quanto più essa presenta una declinazione sociale e un carattere di organicità.
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Il piacere dell'arte

Pratica e fenomenologia del collezionismo contemporaneo in Italia

Marianna Agliottone, Adriana Polveroni

pagine: 264 pagine

Come un bacillo virulento che si propaga in modo incontrollato, il collezionismo può indurre chi ne è affetto a veri e propri eccessi, come sgomberare case per lasciare posto alle opere o dilapidare interi patrimoni per una voglia di possesso così forte da diventare difficilmente governabile. Che cosa ne accende la scintilla? Propensione alla sp
Il blog - Scritti, interviste, invettive, 2006-2009
Iniziato nel 2006 e chiuso d’autorità tre anni dopo, il blog dell’artista e architetto Ai Weiwei si è imposto all’attenzione internazionale come una delle testimonianze culturali e politiche più coraggiose della Cina contemporanea. Critico implacabile del potere, nel solco della tradizione degli “intellettuali pubblici” del Novecento, Ai ha ripreso nei suoi scritti le rivendicazioni di pluralismo soffocate nel sangue a piazza Tienanmen nel 1989, usando internet per denunciare le conseguenze materiali e morali ‒ occultate dalla propaganda di regime ‒ del modello di sviluppo cinese: la mancanza di diritti politici, il feroce sfruttamento del lavoro, la distruzione dell’ambiente e della memoria storica, la repressione violenta delle minoranze, l’arroganza impunita dei ricchi e dei potenti, il rigido controllo dell’opinione pubblica. Sfidando la censura, Ai Weiwei ha creato un’inedita forma di resistenza civile e culturale: nei suoi post si alternano critica e denuncia, si discutono le ultime novità artistiche, si additano impietosamente le ipocrisie ufficiali, si mettono a nudo con umorismo e forza polemica le menzogne, il cinismo, la rassegnazione indotti da un potere che tra paternalismo e mano dura mantiene i propri cittadini in un’eterna infanzia nella quale i riti consumistici hanno sostituito la mobilitazione permanente dell’epoca di Mao.Il blog di Ai Weiwei ora tradotto in italiano rappresenta anche una prova della forza di resistenza dell’arte, una scommessa sulla sua capacità rigeneratrice. Rinnovando l’impulso dell’avanguardia moderna, il diario digitale di Ai diventa un dispositivo di mobilitazione collettiva, una “scultura sociale” che oltrepassa i confini della creatività tradizionale per sollecitare domande urgenti sul ruolo e sulla responsabilità dell’artista, degli spettatori, di tutti noi. Una scultura viva, un agente di trasformazione del mondo grazie al quale la dimensione della moltitudine che caratterizza il nostro campo sociale può acquistare autoconsapevolezza e scoprire la propria forza, ritrovando il valore essenziale della verità e con esso la possibilità di un tempo e di uno spazio diversi, a misura di un’umanità più completa, e più libera.
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Il blog

Scritti, interviste, invettive, 2006-2009

Ai Weiwei

pagine: 392 pagine

Iniziato nel 2006 e chiuso d’autorità tre anni dopo, il blog dell’artista e architetto Ai Weiwei si è imposto all’attenzione internazionale come una delle testimonianze culturali e politiche più coraggiose della Cina contemporanea. Critico implacabile del potere, nel solco della tradizione degli “intellettuali pubblici” del Novecento,
Americani per sempre - I pittori di un mondo nuovo: Parigi 1867 - New York 1948
Parigi, 1° luglio 1867, inaugurazione dell’Esposizione Universale: la Guerra di Secessione è finita, i paesaggisti statunitensi, esponenti della prima autentica scuola americana, ritornano in Europa convinti di meritare elogi, premi, medaglie. Ma anziché un trionfo li aspetta una cocente sconfitta: la critica francese distrugge il loro sogno di successo stroncando con frecciate sarcastiche e commenti crudeli le grandi tele gremite di cascate maestose, alberi secolari, orizzonti smisurati, insomma tutto quanto ha di meglio da offrire una nazione che smania di affermarsi nel settore artistico come sta facendo in campo economico. L’esposizione americana, dicono i francesi, «è indegna dei figli di Washington […] giovane e grezza, in mezzo alle nostre vecchie culture fa l’effetto di un gigante sperduto in una sala da ballo».L’inattesa umiliazione sfocia anzitutto su un esame di coscienza: perché la patria di Melville e Poe è incapace di generare pittori di forza espressiva pari a quella dei suoi maggiori scrittori? Che cosa devono fare i pittori di una giovane nazione per farsi rispettare dai paesi del vecchio mondo? È possibile colmare il divario abissale che li separa dall’arte europea? Per il momento non hanno scelta: sono costretti a piegarsi al gusto dei francesi, sono loro gli arbitri indiscussi della pittura mondiale. In realtà l’insuccesso parigino del 1867 diventa lo stimolo che condurrà i “figli di Washington” a trasformare in sfida lo scacco patito. A centinaia i pittori americani partono per la Francia, si stabiliscono a Parigi, dove frequentano i corsi di maestri del calibro di Gérôme e Cabanel; poi fondano nuove “colonie” di artisti, come quella di Pont-Aven, in Bretagna, diventata leggendaria. L’affermazione dei più grandi – Whistler, Sargent, la Cassatt – aprirà la strada del successo a una selva di pittori che, nell’arco di due generazioni, sostenuti in patria dalle impressionanti risorse di mecenati e filantropi e da straordinarie strutture espositive (prima fra tutte il MoMA di New York), riusciranno a eclissare Parigi, facendo dell’America la nuova terra d’elezione dell’arte, il centro pulsante della pittura mondiale che attirerà a sé anche notissimi artisti francesi.L’epopea dei pittori americani raccontata da Cohen-Solal spazia da Parigi a New York, da Giverny a Chicago, da Pont-Aven a Taos, per approdare alla Biennale di Venezia del 1948, dove vengono esposte per la prima volta in Europa otto tele di un artista ignoto ai più, Jackson Pollock, che di lì a poco verrà celebrato nel mondo intero come primo e assoluto maestro della pittura americana.
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Americani per sempre

I pittori di un mondo nuovo: Parigi 1867 - New York 1948

Annie Cohen-Solal

pagine: 500 pagine

Parigi, 1° luglio 1867, inaugurazione dell’Esposizione Universale: la Guerra di Secessione è finita, i paesaggisti statunitensi, esponenti della prima autentica scuola americana, ritornano in Europa convinti di meritare elogi, premi, medaglie. Ma anziché un trionfo li aspetta una cocente sconfitta: la critica francese distrugge il loro sogno d
Arte Concettuale e strategie pubblicitarie
L’Arte Concettuale è stato uno dei movimenti artistici più importanti della seconda metà del xx secolo. Ripartendo dalle sue origini negli anni sessanta e dai princìpi enunciati da Dan Graham, Joseph Kosuth, Sol LeWitt e Lawrence Weiner, Alberro ne ripercorre la parabola specificatamente newyorkese attraverso le vicende del suo protagonista indiscusso, Seth Siegelaub. Gallerista sui generis eccentrico e poliedrico, Siegelaub sostenne gli artisti che sembravano «creare opere dal nulla» con metodi di promozione assolutamente eterodossi, li sponsorizzò attraverso un business oculato e diplomatico e preparò l’entrata in scena nel mondo dell’arte di un nuovo tipo di attore: il curatore freelance.Alexander Alberro offre un’inedita carrellata dei materiali e delle recensioni relative alle opere più importanti, inserendo l’Arte Concettuale nel contesto sociale della ribellione alle istituzioni culturali tradizionali, della commercializzazione e degli albori del mondo globalizzato. Dalla sua scrupolosa ricostruzione, però, emerge una nuova prospettiva: questo movimento in realtà non intendeva affatto rifiutare il mercato, ma conquistarlo rivoluzionandolo. In questa ottica Siegelaub fondò, per esempio, la Image Art Programs for Industry Inc., una società che grazie all’arte contemporanea conferiva un valore aggiunto alle aziende in cerca di visibilità sociale, e redasse l’Artist’s Reserved Rights Transfer and Sales Agreement, un nuovo tipo di contratto con cui si cercava di limitare lo strapotere di collezionisti, gallerie e musei a favore di un incremento dei diritti dell’artista e che involontariamente finì per sancire la sovrapposizione tra arte e capitalismo.
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Arte Concettuale e strategie pubblicitarie

Alexander Alberro

pagine: 216 pagine

L’Arte Concettuale è stato uno dei movimenti artistici più importanti della seconda metà del xx secolo. Ripartendo dalle sue origini negli anni sessanta e dai princìpi enunciati da Dan Graham, Joseph Kosuth, Sol LeWitt e Lawrence Weiner, Alberro ne ripercorre la parabola specificatamente newyorkese attraverso le vicende del suo protagonista i
Robert Rauschenberg - Fotografie 1949-1962
Questo volume è il primo negli ultimi trent’anni dedicato esclusivamente all’opera fotografica di Robert Rauschenberg (1925-2008). Attraverso l’osservazione delle fotografie che abbracciano gli anni cruciali dal 1949 al 1962 Nicholas Cullinan ripercorre l’impresa dell’artista, riconsiderando tutta la sua produzione – comprendente pittura, collage, scultura, performance o tutti questi elementi messi insieme – in un’ottica essenzialmente fotografica.Rauschenberg iniziò a studiare e utilizzare la fotografia nei suoi lavori tra la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta al Black Mountain College, in North Carolina, e ne rimase così fortemente influenzato che per un certo periodo fu indeciso se dedicarsi alla pittura o alla fotografia. Alla fine scelse entrambe.La dimensione fotografica (tanto immagini prese dai mass media e fotografie trovate quanto scatti propri di paesaggi o istantanee personali e di famiglia) contraddistingue i combines, i transfer drawings e i silkscreen paintings, si sviluppa ulteriormente nelle serie Spreads e Scales fino a culminare nelle ultime opere della serie Runts. Oltre a trovare una collocazione come elementi delle opere, alcune delle fotografie di Rauschenberg hanno anche una forte valenza documentaria e riportano a noi sue opere andate perdute o in fase di trasformazione, configurazione e riconfigurazione, o i ritratti dei suoi colleghi artisti impegnati nell’atto creativo (Cy Twombly, Jasper Johns, Willem de Kooning, Merce Cunningham, John Cage).Come ha scritto Walter Hopps, storico curatore americano, Rauschenberg «si è servito a lungo della fotografia come meccanismo essenziale per mescolare immagini. […] essa resta per lui uno strumento vitale con cui esplorare, sotto il profilo estetico, i modi in cui gli individui percepiscono, selezionano e combinano informazioni visive. Senza la fotografia, gran parte della sua opera non esisterebbe neppure». E a Barbara Rose Rauschenberg stesso dichiarò «Non ho mai smesso di fare il fotografo».
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Robert Rauschenberg

Fotografie 1949-1962

Robert Rauschenberg

pagine: 208 pagine

Questo volume è il primo negli ultimi trent’anni dedicato esclusivamente all’opera fotografica di Robert Rauschenberg (1925-2008). Attraverso l’osservazione delle fotografie che abbracciano gli anni cruciali dal 1949 al 1962 Nicholas Cullinan ripercorre l’impresa dell’artista, riconsiderando tutta la sua produzione – comprendente pittu
Quando Marina Abramović morirà
Belgrado 1974. Marina Abramović dà fuoco a una monumentale stella a cinque punte, simbolo del regime di Tito, ci si distende dentro fino a svenire per asfissia. Un anno dopo a Napoli, uno spettatore le punta al collo una pistola carica: l’artista ha sfidato il pubblico a usare su di lei, risolutamente passiva, uno qualsiasi degli oggetti predisposti su un tavolo. New York 2002. Marina vive per dodici giorni in un’abitazione pensile allestita alla Sean Kelly Gallery. Digiuna. Il solo nutrimento è l’avido sguardo degli astanti che la osservano bere, dormire, lavarsi e urinare. Tra la schiera di spettatori c’è James Westcott: è il suo primo incontro con “la nonna della Performance Art”, come lei ama definirsi, e l’incipit di Quando Marina Abramović morirà, biografia intima di un’artista che da quarant’anni gioca con la morte mettendo il proprio corpo al centro di performance leggendarie.Agli esordi, lanciarsi nell’arte performativa significa per Marina ribellarsi a un’educazione “militarizzata”, tiranneggiata da una madre che le impone diktat culturali comunisti e non la bacia mai. Il taglio netto con Belgrado e il decollo della carriera avvengono dopo l’incontro con l’artista tedesco Ulay, con il quale, a bordo di un furgone Citroën trasformato in casa mobile, gira l’Europa e si esibisce in pezzi che mettono a nudo una simbiosi estrema culminata nell’esibizione di Nightsea Crossing. Ripetuta novanta volte in cinque anni, i due si fissano negli occhi per sette ore consecutive, seduti immobili a un tavolo. Nell’ultima performance di coppia, Marina e Ulay s’incamminano dalle estremità opposte della Grande Muraglia cinese per incontrarsi a metà strada, tre mesi dopo, e dirsi addio. Di nuovo solista e presto consacrata dal Leone d’oro del 1997, Abramović approda infine sotto i riflettori di New York, da dove domina tuttora la scena artistica internazionale.Piu volte le è stato chiesto se durante le sue audaci azioni abbia mai avuto paura di morire. «Okay, muoio. E allora?» risponde. «La vita è un sogno e la morte è un risveglio. Piuttosto, dovremmo pensare a quanto è preziosa la nostra esistenza e al modo insensato in cui la sprechiamo.»
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Quando Marina Abramović morirà

James Westcott

pagine: 352 pagine

Belgrado 1974. Marina Abramović dà fuoco a una monumentale stella a cinque punte, simbolo del regime di Tito, ci si distende dentro fino a svenire per asfissia. Un anno dopo a Napoli, uno spettatore le punta al collo una pistola carica: l’artista ha sfidato il pubblico a usare su di lei, risolutamente passiva, uno qualsiasi degli oggetti predis
Francis Bacon - Una vita dorata nei bassifondi
«Stronzate!» esclama Bacon spazientito quando Daniel Farson gli chiede se è contento di essersi guadagnato un posto nell’Olimpo della storia dell’arte. La reazione è sincera, non gliene importa degli orpelli della fama, figuriamoci della posterità. «Da morti non serviamo più a nulla, è finita» ripete. Non crede in Dio, nella moralità o nell’amore, ma si definisce comunque un ottimista. Un ottimista del nulla, che campa della “sensazione del momento”. La vita è così insensata, tanto vale farne qualcosa di straordinario: il paradosso nietzschiano guida anche un approccio alla pittura improntato alla capacità di sfruttare l’“incidente creativo”, come quando getta a caso il colore sulla tela per vedere che cosa può tirarne fuori.Simile a un funambolo in bilico fra astrattismo e figurazione, si muove abbinando a una casualità intenzionale il calcolo del giocatore d’azzardo. Bacon rema contro l’ondata della moda artistica, che in questi anni abbraccia l’astratto: vuole dipingere la tragica bellezza della vita e se arriva a distorcere la figura umana è solo per trarne una verità più grandiosa e violenta.Analogo intento sembra animare questo libro – vivida memoria personale anziché biografia ufficiale – che riesuma materiali di prima mano raccolti nel corso di un’amicizia iniziata nel 1951 in un locale di Soho e durata oltre quarant’anni. Quello di Farson è il racconto sboccato e senza veli di un artista fuori misura, capace di amori smodati e odi feroci, di slanci magnanimi e spietate calunnie. Fra una bevuta di champagne e una frecciata al vetriolo, lo seguiamo nelle spumeggianti scorrazzate “tra i bassifondi e il Ritz”, al cui capolinea c’è sempre Soho, la bohème di Londra, la seconda casa, se non la prima, di scrittori e artisti che consumano il loro talento nell’alcol. Per Bacon la discesa nel sottobosco omosessuale va di pari passo con l’inarrestabile ascesa artistica: i capolavori in cui esplode una sessualità furiosa passeranno alla storia, ma se qualcuno gli chiede di che cosa si occupi, risponde caustico: «Sono una vecchia checca».
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Francis Bacon

Una vita dorata nei bassifondi

Daniel Farson

pagine: 290 pagine

«Stronzate!» esclama Bacon spazientito quando Daniel Farson gli chiede se è contento di essersi guadagnato un posto nell’Olimpo della storia dell’arte. La reazione è sincera, non gliene importa degli orpelli della fama, figuriamoci della posterità. «Da morti non serviamo più a nulla, è finita» ripete. Non crede in Dio, nella moralità

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