Nel 1872, un uomo fotografa un cavallo. Può sembrare un gesto banale, ma segna l’inizio di una rivoluzione destinata a plasmare il nostro modo di vedere il mondo. A compierla è Eadweard Muybridge, geniale fotografo di paesaggi e instancabile sperimentatore che sfida i limiti della tecnologia e della percezione: “spaccare il secondo” significa aprire una breccia nel tempo, rendere visibile il movimento.
Del resto, la fotografia si adatta a un mondo che vive, viaggia e comunica a ritmo accelerato e che diventa più piccolo grazie al telegrafo e alla ferrovia. Non è un caso che dietro a quell’impresa ci sia proprio Leland Stanford, magnate della Central Pacific Railroad e proprietario del trottatore Occident immortalato per studiarne la velocità. Non un mecenate qualunque, ma l’incarnazione stessa delle tensioni tra capitale, interessi privati e progresso che solcano l’America di fine Ottocento.
Un fiume di ombre non è solo una biografia, è il racconto di una scommessa tecnologica e culturale. I paesaggi mozzafiato di Yosemite e le vedute di San Francisco non fanno da mero sfondo, sono tappe di una storia visiva che porta all’istantanea e – di lì a poco – al cinema e alle industrie mediatiche. Rebecca Solnit compone un affresco che, come i grandi panorami urbani per cui Muybridge era famoso, intreccia tempi e prospettive diverse in un’unica visione, con uno sguardo che parte da un cavallo da corsa per arrivare fino a Hollywood e alla Silicon Valley.