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È il 10 febbraio 1985 e sulla copertina del New York Times Magazine troneggia un Jean-Michel Basquiat in completo Armani seduto nel suo studio di Great Jones Street. Distanze siderali lo separano dal tempo in cui, ribellandosi a un padre borghese, ha scelto il mondo underground dei graffiti, della musica no wave e dei club per dare sfogo a quell’“ottanta percento di rabbia” che alimenta la sua fame di successo. Il radiant child è ormai riconosciuto come il più noto pittore nero e firma opere a quattro mani con Andy Warhol, ma questa celebrità si trasforma presto in una gabbia dorata in cui l’establishment dell’arte lo rinchiude e da cui nemmeno gli eccessi riusciranno a salvarlo. Michel Nuridsany ci descrive un temperamento contraddittorio in un’epoca di contraddizioni: Basquiat vive sulla propria pelle un turbinio di stimoli ed emozioni che riversa poi su qualsiasi supporto abbia a portata di mano: parole, immagini e suoni si ricompongono magicamente in una forma nuova che fa di lui uno dei maggiori poeti visivi del Novecento.